Richard Thaler è un economista americano, nato nel 1945, che insegna all’università di Chicago. È conosciuto per i suoi studi sull’economia comportamentale, per i quali ha vinto nel 2017 il Premio Nobel per l’economia. Il premio gli ha dato notorietà anche in Italia.
La c.d. “economia comportamentale” impiega concetti tratti dalla psicologia cognitiva per cercare di comprendere meglio il meccanismo delle decisioni economiche, elaborando modelli di comportamento alternativi a quelli formulati dalla teoria economica standard, per la quale le decisioni del soggetto economico sono sempre razionali ed informate.
Richard Thaler ha diviso l’umanità in Econs, uomini perfettamente razionali che sanno prendere sempre la decisione migliore, e gli Humans, ossia gli esseri umani qualunque. Gli Humans non si comportano affatto come agenti economici razionali, perché sono affetti da stati psicologici e da precomprensioni culturali:
- Razionalità limitata: secondo la teoria del mental accounting, i soggetti semplificano le loro scelte economiche creando nella loro mente “contabilità separate”, focalizzandosi sui piccoli vantaggi piuttosto che sui vantaggi complessivi;
- Preferenze sociali: Thaler ha riflettuto molto sul concetto di equità nei prezzi, mostrando come preoccupazioni sulle reazioni dei consumatori possono fermare le ditte dall’aumentare i prezzi in periodi di alta domanda, ma non in tempi di costi crescenti.
- Mancanza di autocontrollo: è il perché i buoni propositi sono sempre difficili da mantenere. Thaler mostrato come analizzare i problemi di autocontrollo utilizzando un modello pianificatore-agente, che è simile ai framework che psicologi e neuroscienziati utilizzano oggi per descrivere la tensione interna tra pianificazione a lungo termine ed azioni a breve termine.
Ma perché gli Humans sarebbero così inefficienti nel loro processo decisionale?
Daniel Kahneman, psicologo israeliano a sua volta premio Nobel per l’economia nel 2002, ha descritto le due modalità-base con cui lavora il cervello umano: il “sistema automatico”, rapido ed istintivo, e il “sistema riflessivo”, lento ma razionale e consapevole. I problemi per gli Humans nascono perché il loro cervello dà la precedenza al sistema automatico rispetto a quello riflessivo. Proprio per questo, in quanto siamo Humans, cioè umani, i nostri progetti a lungo termine soccombono sempre dinanzi alle tentazioni del breve termine.
Qui entra in gioco la strategia del nudging, dello “spingere leggermente”.
Le idee sociali di Richard Thaler si basano su quello che egli ha definito il “paternalismo libertario”. La gente non è costretta esplicitamente ad assumere un determinato comportamento, anzi se vuole lo può rifiutare; però è “gentilmente spinta” ad adottarlo tramite un sistema di incentivi e disincentivi che il nostro chiama “l’architettura delle scelte”, portata avanti dagli “architetti delle scelte” adottando la tecnica del nudge, la “spinta gentile”, o anche “pungolo” in italiano. Qui però si apre un bel problema: chi dovrebbero essere gli “architetti delle scelte”? Gli Econs, in quanto capaci di scelte razionali?
Si capisce che il discorso di Richard Thaler qui si presta ad inferenze politiche che porterebbero molto lontano, e si riallaccerebbero naturalmente al discorso che Colin Crouch fa a sua volta sulla “post-democrazia“. Tahler potrebbe apparire come il Gobineau dei CEO: gli Humans lascino decidere agli Econs, perché non sono capaci di scelte razionali. L’affermazione che Richard Thaler è in fondo legato all’attuale clima “post-democratico” è tutt’altro che peregrina: a parte l’evidente ossimoro insito nel termine “paternalismo libertario”, se esiste un “paternalismo” significa che esiste un maggiorenne e un minorenne. Immanuel Kant, come abbiamo studiato tutti a scuola, alla domanda «Che cos’è l’illuminismo?», rispose che era «l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità di cui è egli stesso responsabile». Francamente, chi scrive sente uno strano aroma di Ancien Régime.
Le inferenze politiche del discorso di Richard Thaler non sono però l’argomento del nostro post: a noi interessa invece vedere la teoria del nudge nell’ambito del marketing.
Uno degli esempi di nudge proposti da Richard Thaler può servirci come introduzione. In una mensa, dice il nostro, bisogna mettere davanti alla gente il cibo più salutare e in posizione meno raggiungibile colesterolo e zuccheri. Ma questo non è altro che quello che hanno sempre fatto generazioni di scaffalisti nei supermercati, mettendo in vista e in posizione comoda i prodotti che occorreva smerciare più in fretta perché vicini alla data di scadenza.
Il nudging è sempre esistito nel marketing, anzi, forse ne è l’essenza stessa: cercare di instillare nel potenziale cliente uno stimolo a comprare un determinato prodotto. Non si può imporre l’acquisto di un prodotto per legge, e quindi l’azione del marketing non può che essere quella di una “spinta gentile” che lascia al singolo consumatore tutta la sua libertà di scelta.
Da decenni il marketing utilizza tecniche psicologiche nella comunicazione. Il 95% delle nostre scelte non è preso su base razionale, ma a livello più profondo ed intuitivo – il cosiddetto “pensare implicito” – e il marketing in fondo lo ha sempre saputo. Fattori come le sensazioni, le emozioni, i ricordi sono più forti delle argomentazioni razionali: la stragrande maggioranza delle persone sono Humans, molto più sensibili all’emotività di un racconto che alla chiara esposizione di caratteristiche tecniche.
Ma se prima si utilizzava la psicoanalisi nelle sue varie scuole, oggi il marketing si è avvicinato alle neuroscienze, ossia in pratica quel ramo della biologia che studia la mente a partire dal cervello e dal sistema nervoso. È nato così il neuromarketing. Il cliente target viene studiato nei suoi modi intimi di comunicazione e decisione, con strumenti di diagnosi medica che misurano l’attività del cervello.
Il marketer, in quanto anche lui un “architetto delle scelte”, può progettare un nudge influenzando i sistemi automatici di decisione del nostro cervello. Si potrebbe pensare che questi siano finalizzati, in fondo, a minimizzare l’energia psicologica (come il lavoro mentale per la decodificazione di un messaggio, o l’ansia per il cambiamento) e a massimizzare il piacere immediato.
Nello studio dei mass-media è noto il concetto di frame, la “cornice” fornita dal contesto socio-culturale di riferimento. Questo sia a livello “macro” (come le opinioni di massa) sia a livello “micro” (l’assenso o la riprovazione del gruppo dei pari è uno stimolo fortissimo, irresistibile per bambini ed adolescenti).
Anche il nudging dà un frame, nel suo caso quello che Richard Thaler chiama la “struttura delle opzioni”, che non devono essere né troppe, perché farebbero confusione a chi deve “decidere”, né troppo poche, perché altrimenti non ci sarebbe una parvenza di possibilità di scelta. Si nota qui un atteggiamento tipico dei media: far apparire un problema come risolvibile solo attraverso un numero limitato di scelte “corrette” (bail in o bail out?), tacendo su scelte magari più efficaci, ma indesiderate (perché non ripristinare il Glass-Steagall Act?).
All’interno del frame si deve far emergere la scelta “giusta” attraverso la “descrizione delle opzioni”. Il neuromarketing dice che il messaggio deve essere semplice e diretto, e dare emozioni positive. Il nudging quindi, all’interno del ventaglio di scelte, “spinge” verso quella che, rispetto alle altre, è presentata nel modo più immediato ed emotivamente più positivo.
Un modo molto potente di guidare le scelte è quello delle “opzioni di default”, ossia delle opzioni predefinite. Il default bias è dovuto sia alla comodità, sia al senso di sicurezza che dà un’impostazione predefinita di fronte ad opzioni poco comprensibili (metodo molto usato dai progettisti dei sistemi operativi).
Tutto OK? Non è detto. Certe volte sembra che molti marketers siano in continua ricerca della pietra filosofale che permetta di avere un rateo di conversione enorme. Così nel corso degli anni abbiamo avuto un continuo prolificare di tipi di marketing, ma nessuno di essi si è mai rivelato la soluzione finale al problema della c.d. CRO (Conversion Rate Optimization) e quindi della massimizzazione del c.d. ROI (Return on Investment). Alla fine, la strategia globale si trova ad essere composta da un insieme di tattiche diverse.
La Harvard Business Review ha evidenziato delle criticità anche nel nudging. Prima di tutto, il nudging presuppone un comportamento monodimensionale da parte del consumatore: cioè presuppone che il consumatore, di fronte agli stessi stimoli, si comporti sempre allo stesso modo. In seconda battuta, non tiene conto dell’effetto assuefazione: se su una strada c’è solo un cartellone pubblicitario, tutti si fermano a guardarlo; se invece ce ne sono un centinaio, la gente passa senza accorgersene. Un esempio ancora più chiaro sono le funeree etichette «il fumo uccide» sui pacchetti di sigarette, che i fumatori sono ormai abituati a vedere e ai quali non fanno più caso.
Inoltre, il nudge è un po’ come la psicostoria di Isaac Asimov: funziona se lo human di turno non ne è consapevole. Se invece ne capisce il meccanismo, può scattare benissimo una reazione di bastian contrario. Una manipolazione che diventa palese non può che essere sentita come una costrizione, e trattata come tale.
E, last but not least, presuppone che lo Human non si comporti praticamente mai da Econ. In verità, sembra più verosimile dire che tutti quanti siamo contemporaneamente Human ed Econ, anche se in percentuali molto diverse. La psicologia motivazionale a questo proposito si pone in modo diametralmente opposto alla psicologia comportamentale. Invece di considerare gli Humans degli emotivi irrecuperabili, e perciò – lasciatemelo dire – una specie di Untermenschen, la psicologia motivazionale cerca di aumentare in ognuno di noi la capacità di ragionare oggettivamente, anche in condizioni mentali non ottimali (stress ad esempio).
Il marketing deve poter comunicare con tutta la persona del potenziale compratore, non solo con la sua parte emotiva ed inconscia: se la soddisfazione emotiva per l’acquisto si accompagna anche alla soddisfazione razionale per lo stesso, sarà difficile che il cliente possa pentirsene e sarà molto più facile che torni a rivolgersi ai prodotti dello stesso brand.
Thaler, Richard H. – Cass Sunstein, Nudge: Improving Decisions About Health, Wealth, and Happiness, New York: Penguin 2009 (updated edition), ISBN 0-14-311526-X.