La vera eredità teorica di Oppenheimer
Il suo indubbio eclettismo portò Oppenheimer a interessarsi di astrofisica e a passare così dalle teorie quantistiche alla relatività generale. Col senno di poi, fu la parte più fruttuosa del suo lavoro di fisico teorico.
Gli anni Trenta furono storici in astrofisica per quanto riguarda gli studi sull’evoluzione stellare. Già nel 1920 Sir Arthur Eddington aveva proposto che le stelle derivassero la loro energia dalla fusione dell’idrogeno in elio, ma nessuno aveva idea di come si potesse svolgere la reazione. I progressi della fisica nucleare avevano reso palese che le stelle della sequenza principale del diagramma H-R erano in equilibrio idrostatico tra le reazioni termonucleari e la massa gravitazionale, anche se fino ai lavori pionieristici di Hans Bethe del 1938-39 non era ancora ben chiaro di che reazioni si trattasse. Comunque era chiaro che, quando il combustibile nucleare si fosse esaurito, la stella sarebbe fatalmente incorsa in un collasso gravitazionale. Qui si aprì da parte di molti rinomati fisici della “vecchia scuola” un vero “horror vacui” nei confronti dei prodotti degeneri del collasso gravitazionale di una stella. Nel 1926-27 Eddington e Ralph Fowler arrivarono a concepire correttamente le “nane bianche” come il risultato finale del collasso gravitazionale delle stelle: grazie alla “pressione di degenerazione” dovuta al principio di esclusione di Pauli, tutte le stelle avrebbero terminato la loro vita attiva in tranquille nane bianche. Tutti i terrorizzati dal collasso gravitazionale, Einstein compreso, dormirono sonni tranquilli ma solo per pochi anni: nel 1931 l’astrofisico indiano Subrahmanyan Chandrasekhar dimostrò che non tutte le stelle sarebbero diventate nane bianche, ma solo quelle il cui nucleo collassato non avesse superato le 1,44 masse solari (quello che oggi è noto come “limite di Chandrasekhar”). Le stelle di massa maggiore avrebbero continuato a collassare. Sir Arthur Eddington, considerato da tutti – lui per primo – il supremo luminare mondiale in fatto di fisica stellare, per usare il corretto termine “tecnico” sputtanò senza pietà il povero Chandrasekhar in una conferenza del 1935, tanto da costringerlo ad emigrare negli Stati Uniti (per inciso, come purtroppo vedremo, lo stesso Oppenheimer non era per nulla alieno da simili “eddingtonate” con i giovani fisici che gli stavano antipatici).
Oltre a Chandrasekhar, anche altri fisici ed astronomi si dedicarono alla “morte” delle stelle, riportando con sempre maggiore insistenza, man mano che passavano gli anni, l’inadeguatezza dell’ipotesi della “nana bianca” come stadio finale di una stella, indipendentemente dalla sua dimensione. Nel 1932 il fisico sovietico Lev Landau, in un suo lavoro basato sul principio di esclusione di Pauli, affermò che doveva esserci un limite superiore assoluto per la massa di un corpo autogravitante freddo, distinto da quello supportato dalla pressione termica (On the theory of stars, «Phys. Z Sowjetunion» 1:285–288,1932).
Fritz Zwicky (1898-1974), astronomo svizzero che lavorava al Caltech, e Walter Baade (1893-1960), astronomo tedesco emigrato negli USA in tempi non sospetti (1931), che lavorava invece all’osservatorio astronomico di Mount Wilson (che allora vantava il riflettore più grande al mondo, quello con cui lavorò Edwin Hubble, e che rimase tale finché nel 1949 non entrò in funzione il telescopio di Mount Palomar), cercando di spiegare il meccanismo di formazione delle “supernovae”, termine coniato proprio da loro, proposero l’ipotesi di una “stella di neutroni”. L’idea fu prima lanciata al meeting dell’American Physical Society del dicembre 1933, e apparve poi nel loro articolo Remarks on Super-Novae and Cosmic Rays («Physical Review», vol. 46, Issue 1, pp. 76-77, July 1934; vedi anche qui).
Oppenheimer si interessò al problema, lasciando per un attimo la meccanica quantistica e la fisica nucleare per l’astrofisica e la relatività generale. Ne nacquero due storici articoli per la «Phisical Review», uno sulle stelle di neutroni e l’altro su quelli che sarebbero stati chiamati quasi tre decenni dopo “buchi neri”. A Berkeley era arrivato nel 1934 Robert Serber, per lavorare come assistente post-dottorato di Oppenheimer. Serber divenne uno dei confidenti più stretti di Oppenheimer prima di trasferirsi nel 1938 all’università di Urbana, Illinois [Pais, p. 21]. Serber poi reincontrò Oppenheimer a Los Alamos.
Oppenheimer e Serber, partendo dal lavoro di Hans Bethe sulle reazioni nucleari stellari, si posero la stessa domanda già espressa anni prima da Lev Landau: esisteva un limite di massa anche per le stelle di neutroni? Oppenheimer e Serber mandarono una breve comunicazione nella rubrica “Letters to the Editor” dal titolo On the Stability of Stellar Neutron Cores, apparsa il 1° ottobre 1938 alla pagina 540 del volume 54 della «Phisical Review».
Dopo questa prima comunicazione con Serber, Oppenheimer fece delle stelle di neutroni l’argomento della tesi di Ph.D. di un suo dottorando, George Michael Volkoff. Volkoff (1914-2000) era uno studente di Oppenheimer canadese ma di origine russa, e fu tra quelli che informarono Oppenheimer della ferocia del totalitarismo staliniano. D’altra parte, molti fisici ebrei che erano andati in URSS per lavorare con il grande Lev Landau poi, vista la mala parata, fuggirono terrorizzati. Il padre di Volkoff era emigrato in Canada nel 1924 ma dopo varie vicissitudini tornò in URSS nel 1936, per trovarsi lì in un bel gulag dove vi lasciò le penne. Volkoff riuscì a tornare in Canada e qui alla University of British Columbia prima ottenne la laurea “Bachelor of Arts” nel 1934 e in seguito la “Master of Arts” nel 1936. Per ottenere il Ph.D. andò a Berkeley a studiare con Oppenheimer. La sua tesi per il Ph.D, che ovviamente recava anche la firma del relatore, aveva come titolo On Massive Neutron Cores e apparve nel 1939 sul volume 55 della “Physical Review” in data 15 febbraio 1939. Volkoff ottenne il Ph.D. l’anno dopo.
Il lavoro di Volkoff e Oppenheimer era basato su quello di Richard Chace Tolman (1881-1948), un fisico-chimico del Caltech che si interessò in modo molto approfondito della teoria della relatività, sia ristretta che generale. Tolman nel 1912 stabilì l’equazione per la massa relativistica, nel 1934 affrontò un problema ancora oggi molto dibattuto con il suo Relativity, thermodynamics and cosmology, e nel 1939 pubblicò sulla Physical Review (volume 55, 364–373, 1939) un articolo dal titolo Static Solutions of Einstein’s Field Equations for Spheres of Fluid, che sarà la base di partenza delle ricerche di Oppenheimer e studenti.
Nacque così il cosiddetto “limite di Tolman–Oppenheimer–Volkoff”, l’analogo del limite di Chandrasekhar per le stelle di neutroni. È cioè un limite superiore per la massa di una stella di neutroni non rotante costituita da un “gas di Fermi” (cioè un insieme di fermioni non interagenti tra loro). Seguendo le indicazioni del lavoro di Lev Landau del 1932, esplicitamente citato nell’articolo («In 1932 Landau proposed that instead of making arbitrary assumptions about energy sources chosen merely for mathematical convenience, one should attack the problem by first investigating the physical nature of the equilibrium of a given mass of material in which no energy is generated»), questo “gas di Fermi” avrebbe dovuto essere freddo, con la pressione determinata solo dalla densità e non anche dalla temperatura. L’idea era splendida ma proprio a causa del fatto di non aver tenuto conto nel modello delle forze nucleari tra neutroni, Oppenheimer e Volkoff stabilirono un limite di 0,7 masse solari, decisamente troppo piccolo: la metà del limite di Chandrasekhar per le nane bianche! La cosa non poteva funzionare e in effetti oggi si parla più realisticamente di una massa del nucleo rimasto dopo l’esplosione di supernova grossomodo tra 1,5 e 3,0 masse solari, corrispondenti a una massa stellare primitiva tra le 15 e le 20 masse solari. Inoltre, l’articolo non prendeva in considerazione, per motivi di semplicità, la possibilità di stelle di neutroni rotanti, quelle che poi si riveleranno il caso più interessante di stella di neutroni per le loro particolari emissioni elettromagnetiche, da cui il loro nome, “pulsar”). L’articolo conteneva anche la “equazione di Tolman-Oppenheimer-Volkoff”. Utilizzando come d’uso coordinate sferiche, gli autori avevano ottenuto dall’equazione di campo di Einstein una metrica sferica simmetrica generalmente invariante rispetto al tempo. Accompagnata da un’equazione di stato che leghi la densità alla pressione, questa equazione determina in modo completo la struttura di un corpo a simmetria sferica composto da materiale isotropo e in equilibrio gravitazionale statico. L’equazione, nonostante il nome, sembra sia stata opera praticamente del solo Volkoff [Monk, p.389].
Il secondo articolo, On Continued Gravitational Contraction, apparso nella «Physical Review» alle pagine 455-459 del volume 56 del 1° settembre 1939 (data universalmente ricordata per tutt’altro evento, evento che comunque cambiò totalmente anche la vita di Oppenheimer), è considerato una pietra miliare nello studio teorico dei “buchi neri”. L’articolo era stato scritto da Hartland Sweet Snyder (1913-1962) sotto la supervisione di Oppenheimer, che era il suo relatore per il Ph.D. [Monk, pp. 389-390].
L’esistenza di “buchi neri” come singolarità nello spaziotempo era una conseguenza diretta della prima soluzione trovata all’equazione di campo di Einstein, ossia la metrica di Karl Schwarzschild del 1916. Sia Einstein che Eddington negavano recisamente la possibilità che una singolarità, come vero ente fisico, potesse esistere veramente. Eddington considerava tutte le possibili singolarità come apparenti, eliminabili con un semplice cambio di coordinate. In quanto ad Einstein, mandò un articolo alla rivista «Annals of Mathematics» il 10 maggio 1939 dal titolo On a Stationary System with Spherical Symmetry Consisting of Many Gravitating Masses, dove cercava di dimostrare, tramite la stessa relatività generale, che i “buchi neri” erano fisicamente impossibili.
L’articolo venne però pubblicato dalla rivista solo il 1° ottobre 1939 (Vol. 40, No. 4, Oct., 1939), quindi un mese dopo l’articolo di Oppenheimer e Snyder. Il che fa concludere che quest’ultimo articolo non avesse nulla a che fare con quello di Einstein. Le citazioni a piè di pagina riguardano solamente il precedente articolo di Oppenheimer e Volkoff sulle stelle di neutroni, e per due volte Richard Tolman, che era, come abbiamo visto, un esperto di relatività generale. Oppenheimer e Snyder scrivono: «We wish to thank Professor R. C. Tolman and Mr. G. Orner for making this portion of the development available to us, and for helpful discussions». Da questo storico articolo è derivato il cosiddetto “modello Oppenheimer-Snyder” per un collasso gravitazionale. Come la soluzione di Schwarzschild è il modello più semplice per un buco nero, il modello di Oppenheimer e Snyder è la soluzione più semplice che descriva il collasso gravitazionale di un oggetto massiccio in un buco nero. Essendo le soluzioni più semplici, sono spesso il punto di partenza per riflessioni teoriche più elaborate.
Com’era prevedibile, questo articolo fu snobbato per decenni dalla comunità scientifica. John Archibald Wheeler (sì, proprio lui), in una conferenza del 1958 disse che il lavoro di Oppenheimer e Snyder era poco realistico perché aveva tralasciato troppi particolari legati alla fisica di una stella reale. Era vero. Oppenheimer e Snyder partivano da un oggetto massiccio fortemente idealizzato: simmetria sferica perfetta, densità interna costante, estensione finita, e circondato dal vuoto (si trattava delle ipotesi di partenza necessarie per partire dalla soluzione di Schwarzschild, la stessa usata da Einstein come punto di partenza per il suo articolo sull’inesistenza dei buchi neri). Inoltre, il collasso partiva da una situazione del corpo perfettamente statica, con ogni elemento del corpo a riposo rispetto agli altri elementi, cioè senza alcun tipo di interazione tra essi. A questo punto però bisogna ricordarsi che nel 1939 i più potenti strumenti di calcolo erano ancora carta, penna e regolo calcolatore, e fare forti ipotesi semplificatorie era l’unico modo di rendere trattabile la matematica del problema. Ma nonostante ciò i risultati erano corretti. Infatti Wheeler cambiò completamente idea quando Edward Teller gli disse che una simulazione a computer fatta da Stirling Colgate e il suo team al Lawrence Livermore National Laboratory (quello, come già detto, voluto da Teller per avere un’alternativa tutta sua a Los Alamos) aveva mostrato che una stella gigante avrebbe potuto subire una contrazione gravitazionale continuata simile a quella descritta da Oppenheimer e Snyder.
Negli anni Sessanta l’astrofisica visse un periodo rivoluzionario. Nel 1963 fu identificato otticamente il primo quasar, fino allora noto solo come una potente sorgente radio; nel 1964 Arno Penzias e Robert Wilson scoprirono la radiazione cosmica di fondo; nel 1965 un razzo-sonda Aerobee lanciato dal poligono di White Sands scoprì Cygnus X-1. Il satellite Uhuru, lanciato nel 1971 dalla piattaforma italiana San Marco al largo delle coste del Kenya, fece la prima mappa celeste delle sorgenti nella banda dei raggi X, e Cygnus X-1 divenne il primo serio candidato identificabile come un buco nero. Infine, nel 1967 Jocelyn Bell scoprì le “pulsar”, presto identificate come stelle di neutroni; in quello stesso anno i satelliti militari Vela dell’US Air Force scoprirono i “gamma-ray bursts”. Le stranezze matematiche della relatività generale cominciavano a popolare il cielo. Nello stesso periodo tutta una serie di fisici iniziarono un vero e proprio “revival” teorico della relatività generale, negli USA ad esempio John Archibald Wheeler, Kip Thorne, Roy Kerr, David Finkelstein, Charles Misner, James Hartle e molti altri, in Gran Bretagna Roger Penrose e il celeberrimo Stephen Hawking, che hanno approfondito in modo decisivo la teoria dei buchi neri, senza dimenticare l’italiano Tullio Regge. Oggi che i buchi neri con i loro dischi di accrezione sono stati identificati anche nel visibile, si può dare di Oppenheimer anche un’immagine diversa rispetto alla solita di “padre della bomba atomica”.
Dopo lo storico articolo con Snyder, Oppenheimer perse subito interesse per la materia e tornò al suo vero pallino, la fisica delle particelle. Quando Wheeler, più di vent’anni dopo, cercò di parlare con Oppenheimer del suo lavoro pioneristico sulle stelle di neutroni, si accorse che Oppenheimer non aveva nessun interesse per l’argomento [Bird-Sherwin, p. 117].
Ritorno alla fisica delle particelle
Già in quello stesso 1939 sulla «Physical Review» (n. 56, pp. 1066-1067) apparve un articolo scritto con Julian Seymour Schwinger, On pair emission in the proton bombardment of fluorine. Schwinger fu uno dei più brillanti giovani fisici teorici della terza generazione, quella della sistematizzazione dell’elettrodinamica quantistica. Schwinger non era un dottorando di Oppenheimer, aveva già ottenuto il suo Ph.D. con Isidor Rabi e si trovava a Berkeley per perfezionarsi, dopo aver preferito l’università californiana a Zurigo e a Wolfgang Pauli: l’epicentro della fisica teorica si era ormai definitivamente spostato dall’Europa agli Stati Uniti [Monk, p. 445]. Il rapporto tra Oppenheimer e Schwinger non fu idilliaco: al solito Oppenheimer si incaponiva a considerare errate teorie giuste e a sbagliare i calcoli, di fronte poi a uno dei fisici del XX secolo che passerà alla storia della scienza per il suo talento matematico. Schwinger, per dire, dette il contributo maggiore alla rinormalizzazione dell’elettrodinamica quantistica. Un problema aspramente discusso tra i due era quello della “polarizzazione del vuoto”, in pratica la produzione spontanea da parte del campo elettromagnetico di coppie elettrone-positrone. Si tratta di uno dei fenomeni più importanti della fisica quantistica, essendo alla base sia della radiazione di Hawking che dell’effetto Casimir.
L’articolo pioneristico sui buchi neri fu l’ultima intrusione di Oppenheimer nel regno della relatività generale e dell’astrofisica. L’articolo successivo segnò il ritorno di Oppenheimer al suo campo preferito, la fisica delle particelle. Fu firmato da Oppenheimer assieme allo stesso Snyder e a Serber, e fu pubblicato sulla solita «Physical Review» (numero 57, pp. 75-81) il 15 gennaio 1940. Aveva come titolo The production of soft secondaries by mesotrons. “Mesotrone” era il nome che veniva dato all’epoca alle nuove particelle, solo dopo la guerra ribattezzate col nome odierno di “mesone”, che avevano massa intermedia tra quella del protone e dell’elettrone e che erano state scoperte grazie soprattutto allo studio dei raggi cosmici. I mesoni erano da tempo un grande cruccio di Oppenheimer, soprattutto perché in verità si trattava di due particelle diverse: il mesone μ o “muone” e il mesone π o “pione”. Tutto il grande lavoro fatto da Oppenheimer sui mesoni fu rovinato dalla sua testardaggine nel considerare muone e pione la stessa particella. Questo lo conduceva a sostenere, tanto per cambiare, che la QED iniziata da Dirac era sbagliata senza accorgersi che le discrepanze che trovava erano dovute al fatto che confondeva il muone, che oltretutto oggi non è più considerato un “mesone” in quanto avendo spin ½ fa parte della famiglia dei leptoni e conseguentemente dei fermioni, con il pione, che avendo spin 0 fa parte della famiglia dei bosoni (oltretutto esistono tre tipi distinti di pioni, ma qui andiamo sul “tecnico”). Il muone era stato scoperto da Carl David Anderson e da Seth Neddermeyer nel 1936 studiando i raggi cosmici, e furono loro a dargli il nome di “mesotrone”. Il pione invece fu prima previsto dal fisico giapponese Hideki Yukawa nel 1935, e perciò conosciuto per diversi anni dai fisici come «la particella di Yukawa», alla quale non si riusciva a dare un’identità definita. Per inciso, il pione (o meglio i pioni) è la particella mediatrice dell’interazione forte tra i nucleoni (protoni e neutroni) all’interno degli atomi; è composto da un quark e un antiquark. Ma per sapere questo occorrerà aspettare ancora qualche decennio e la nascita della “cromodinamica quantistica”.
Marcello Conversi, Ettore Pancini e Oreste Piccioni, in un esperimento (chiamato in gergo “esperimento CPP”), condotto nel 1945-46 mostrarono come il “mesotrone” (cioè il muone) non potesse essere «la particella di Yukawa». L’esperimento CPP colpì molto Oppenheimer e i fisici americani, anche per le condizioni di fortuna nel quale era stato condotto, a cavallo tra l’occupazione tedesca e i primi mesi del dopoguerra in Italia. Il pione fu poi scoperto nel 1947 osservando i “soliti” raggi cosmici (i veri acceleratori di particelle di quegli anni) da parte di Giuseppe Occhialini, Bruno Lattes e altri.
Il 1° marzo 1941 Oppenheimer scrive da solo una memoria per la «Physical Review» (n. 59, p. 462) dal titolo On the spin of the mesotron. Seguì poi, con la collaborazione di Julian Schwinger, On the interaction of mesotrons and nuclei («Physical Review», n 60, pp. 150-152), pubblicato il 15 luglio 1941. Dopo di questo articolo, Oppenheimer fu presto totalmente invischiato in quello che, anche se nel male, fu con il programma Apollo il più grande progetto tecnologico del XX secolo.
Dopo Manhattan
Dopo il 1945, qualsiasi università americana avrebbe spalancato le porte a Oppenheimer come professore ordinario. Col senno di poi, ritornare a una vita puramente accademica, senza prendere posizioni politiche, sarebbe stato forse la soluzione migliore mentre il paese, preso da quella che gli storici americani chiamano “second red scare” stava scivolando verso il maccartismo. Certo in questo modo la pensava il vecchio Albert Einstein [Monk, p. 1064], ma un misto di autocompiacimento e sincera devozione per il proprio paese lo spingeva a credere di poter ancora influenzare la politica nucleare degli Stati Uniti, cosa non vera perché questa era saldamente nelle mani dei vertici politici e militari. Oppenheimer sopravvalutava la sua capacità di affascinare e convincere le persone: questa non funzionava affatto con gente molto concreta, per non dire rozza, come erano molti politici americani, anzi sortiva l’effetto opposto: l’impressione che Oppenheimer fece su Harry Truman fu pessima. Inoltre, Oppenheimer non si capacitava di come gente molto meno intelligente di lui, ma molto più scaltra, avrebbe potuto fargli molto del male. Altrimenti avrebbe capito che personaggi come Lewis Strauss era meglio tenerli alla larga, e se questo non era possibile, occorreva tenerseli buoni senza contraddirli. E non aveva nessun istinto per fiutare l’aria che tirava: arrivato Eisenhower alla Casa Bianca, non capì che quella era l’ora dei “falchi” e continuò ad opporsi alle politiche militari e nucleari della nuova amministrazione, senza accorgersi del cerchio che si stava stringendo intorno a lui, anzi commettendo un vero e proprio suicidio politico. Eppure, sarebbe bastato aspettare la nuova amministrazione Kennedy per vedere confermate molte delle sue idee, prima tra tutte il passaggio dalla strategia militare nucleare della “rappresaglia massiccia” a quella della “risposta flessibile”. Progressivamente sempre più preso dalla politica, Oppenheimer dopo il 1950 si può dire lasciò totalmente la ricerca attiva, pur rimanendo a contatto con l’ambiente scientifico grazie alla sua carica (che Strauss non riuscì a togliergli) di direttore dell’Institute of Advanced Study di Princeton.
Dopo Manhattan, il primo articolo scientifico di Oppenheimer del dopoguerra esce il 1° ottobre 1946 per la solita «Physical Review» (n. 70, pp. 451-458), che l’aveva ricevuto il 26 giugno 1946. L’articolo era stato scritto in collaborazione con Hans Bethe: Reaction of Radiation on Electron Scattering and Heitler’s Theory of Radiation Damping. Nel loro articolo, Oppenheimer e Bethe consideravano lo scattering degli elettroni (processo nel quale un elettrone è deflesso dalla sua traiettoria a causa di forze elettromagnetiche) e le reazioni di questo con la radiazione sulla base della teoria di Heitler sullo “smorzamento per radiazione”.
Walter Heinrich Heitler (1904-1981), fisico tedesco, nonostante il cognome molto simile a quello dell’universalmente noto führer, era ebreo e come tale nel 1933 dovette emigrare in Inghilterra e poi da qui nel 1940 a Dublino in Irlanda. Si interessò di elettrodinamica quantistica e nel 1936 scrisse The Quantum Theory of Radiation, un libro considerato una pietra miliare in quegli anni. Aveva già collaborato in Europa con Hans Bethe sull’interazione tra materia e particelle ad alta velocità con emissione di radiazione da parte del campo elettrico di un nucleo atomico e conseguente perdita di energia da parte della particella veloce. L’interpretazione dello scattering degli elettroni in relazione al “radiation damping” era in quegli anni una questione che dava grossi problemi, perché le teorie quantistiche dell’epoca davano previsioni che non corrispondevano ai dati sperimentali, tanto che si venne a parlare di “catastrofe infrarossa” – riecheggiando la “catastrofe ultravioletta” da cui era partita la fisica quantistica – poi risolta quando vennero messe a punto le tecniche di rinormalizzazione.
Il 1948 fu l’anno dei suoi ultimi articoli di fisica quantistica e delle particelle: Note on stimulated decay of negative mesons (pubblicato il 15 maggio 1948 sulla «Physical Review», n. 73, pp. 1140-1141), scritto con S.T. Epstein ST e R.J. Finkelstein, The multiple production of mesons, scritto in collaborazione con Harold Warren Lewis (1923- 2011) e Siegfried A. Wouthuysen («Physical Review». 73: 127-140), e On infinite field reactions in quantum field theory, assieme al fisico giapponese Shin’ichirō Tomonaga da lui poi portato a Princeton («Physical Review», n. 73, pp. 127-140). L’ultimo articolo scientifico in assoluto di Oppenheimer è del 1950 ed è un’icona del suo eclettismo: ARNOLD W, OPPENHEIMER JR. Internal conversion in the photosynthetic mechanism of blue-green algae («The Journal of General Physiology» 33, 423-35).
Shelter Island
Oppenheimer fece progredire la fisica teorica americana non direttamente con il suo lavoro di ricerca, ma piuttosto come organizzatore scientifico, cosa che, come si era visto col progetto Manhattan, gli riusciva più che bene. Come disse Hans Bethe nella sua Memoria su Oppenheimer, «More than any other man, he was responsible for raising American theoretical physics from a provincial adjunct of Europe to world leadership».
La prima Conferenza di Shelter Island del 2-4 giugno 1947, ideata dal chimico Duncan A. MacInnes e organizzata dalla National Academy of Sciences e da Oppenheimer, fu di importanza tale da essere paragonata al famoso Congresso Solvay del 1911. Il nome esteso era “Shelter Island Conference on the Foundations of Quantum Mechanics”, e indicava il grande obiettivo che i fisici del dopo-Manhattan si erano posti: dare finalmente una sistemazione soddisfacente all’elettrodinamica quantistica. Ma la sua vera importanza era quella di avere, per la prima volta dopo la guerra, radunato la crema della fisica americana in un contesto dove questa avrebbe potuto parlarsi liberamente. Come disse Julian Schwinger, era la prima volta dopo Pearl Harbor che i fisici non si domandavano tra loro: «Ma questo è classificato?».
Isidor Rabi (1898-1988), l’amico di Oppenheimer, riportò la misura precisa del momento magnetico dell’elettrone.
Robert Marshak (1916-1992, Università di Rochester) espose la sua “ipotesi del doppio mesone”: cioè fu il primo a capire che la confusione che circondava il “mesotrone”, ora ribattezzato “mesone”, era risolvibile supponendo che i mesoni fossero due, il mesone π e il mesone μ, che furono successivamente ribattezzati “pione” e “muone”. A tale proposito Oppenheimer, ovviamente presente alla conferenza, citò l’esperimento “sulla disgregazione dei mesoni negativi”, cioè l’esperimento Conversi-Panzini-Piccioni (“CPP”) condotto in Italia con mezzi di fortuna durante la guerra, con il quale fu chiaro che il muone non era la “particella di Yukawa” responsabile dell’interazione tra i nucleoni, bensì era un leptone, cioè era affine agli elettroni. Luis Alvarez disse nel 1968 che l’esperimento CPP «fu l’inizio della moderna fisica delle particelle».
Richard Feynman (1918-1988) presentò per la prima volta pubblicamente, anche se allora con scarso successo, i famosi diagrammi che portano il suo nome.
Willis Lamb (1913-2008), che fu dottorando di Oppenheimer, presentò l’esperimento che aveva condotto assieme a Robert Curtis Retherford (1912–1981) per misurare lo scostamento tra due livelli energetici degli orbitali elettronici presenti nell’atomo di idrogeno, che si manifestava attraverso lo spettro di questo elemento chimico e del quale si era già accorto Oppenheimer nella sua polemica contro l’equazione di Dirac. Infatti questa piccola ma anomala differenza di energia tra i due orbitali 2S1/2 e 2P1/2 non era prevista dall’equazione di Dirac, ma era dovuta all’interazione tra i fotoni virtuali creati dalle fluttuazioni dell’energia del vuoto e l’elettrone che si muove attorno al protone del nucleo in ciascuno dei due orbitali. Lo “spostamento di Lamb”, fu un fenomeno sperimentale importante per la nascita della QED e per il quale Willis Lamb vinse il Premio Nobel nel 1955 «per le sue scoperte riguardanti la struttura fine dello spettro dell’idrogeno». Oltre a questi parteciparono Hans Bethe, David Bohm, John von Neumann, Abraham Pais, Linus Pauling, Bruno Rossi, Julian Schwinger, Edward Teller, Robert Serber, John Archibald Wheeler.
Princeton
Prima di diventare quell’acerrimo nemico che occupa il ruolo di antagonista principale in tutte le biografie di Oppenheimer, Lewis Strauss offrì ad Oppenheimer il posto di direttore dell’Institute of Advanced Study di Princeton, carica che ricoprì dall’ottobre 1947 e che Strauss non riuscì più a togliergli. Oppenheimer riuscì a portare a Princeton sia Niels Bohr che Paul Dirac. Ma non voleva trasformare Princeton in una sorta di casa di riposo per premi Nobel: Princeton doveva invece diventare una palestra per i giovani fisici promettenti. Rispetto a Dirac, Oppenheimer, nonostante il suo criticismo, ebbe il merito di essere più aperto ai nuovi sviluppi dell’elettrodinamica quantistica portata avanti dalla nuova generazione di fisici. A questo scopo Oppenheimer cercò di ingaggiare Richard Feynman e Julian Schwinger, ma senza esito; riuscì invece a portare a Princeton Abraham Pais e il giovanissimo Freeman Dyson.
Una nota interessante è che, durante il maccartismo, David Bohm fu ferocemente perseguitato per i suoi trascorsi di affiliato al Partito Comunista degli Stati Uniti. Dopo la sua espulsione dall’Università di Princeton, Einstein propose che Bohm diventasse suo assistente all’Institute of Advanced Study. Ovviamente Oppenheimer non ne volle sapere, perché avrebbe portato la lobby anticomunista troppo vicino a lui. Einstein, come tutti sanno, non digerì mai le implicazioni probabilistiche della meccanica quantistica; non tanto perché ne negava i risultati, quanto perché, essendo una forte mente filosofica, era preoccupato di come questa arrivasse a scardinare principi come la causalità e la località, tanto da finire, nelle sue interpretazioni più spinte, a una specie di idealismo alla Berkeley dove “esse est percipi” (da qui la famosa frase di Einstein che la Luna esiste anche se non la vediamo). Fino alla fine della sua vita cercò le “variabili nascoste” che avrebbero permesso alla meccanica quantistica di diventare una teoria “completa”. Colmo dell’ironia, con il suo articolo del 1935 sul “paradosso EPR”, fu proprio Einstein a scoprire il fenomeno dell’entanglement quantistico di cui tanto si parla oggi.
Einstein avrebbe sentito dire di un’eventuale revisione della fisica quantistica, che «se qualcuno può farla, quello può essere solo Bohm» [Bird-Sherwin, p. 487]. Einstein aveva accettato subito il dualismo onda-particella di De Broglie; quello che gli faceva problema era il principio di indeterminazione di Heisenberg e l’interpretazione probabilistica dell’equazione di Schrödinger (il famoso “Dio non gioca a dadi”). La cosa interessante è che David Bohm nel 1952 ripescò la vecchia idea di De Broglie della c.d. “onda pilota” dando un’interpretazione alternativa, totalmente deterministica, della meccanica quantistica rispetto alla classica e probabilistica “interpretazione di Copenaghen”.
Pocono e Oldstone
Alla conferenza di Shelter Island seguirono la Conferenza di Pocono del 1948 e quella di Oldstone del 1949. La conferenza di Pocono (30 marzo – 2 aprile 1948) fu organizzata da Oppenheimer per conto della National Academy of Sciences (NAS). La conferenza fu monopolizzata da Julian Schwinger e da Richard Feynman, che stavano gettando le basi dell’elettrodinamica quantistica (QED), per la quale, assieme a Shin-Ichiro Tomonaga, vinsero il Nobel nel 1965. Schwinger presentò la sua versione, matematicamente molto sofisticata, della QED, alla quale Feynman rispose con una “formulazione alternativa della elettrodinamica quantistica”. Oppenheimer apprezzò Schwinger, ma fu caustico con Feynman nel modo che gli era solito, cioè distruggendo con la sua dialettica (e la sua fama) il relatore.
Freeman Dyson, con un articolo scritto nel 1948 dal titolo The Radiation Theories of Tomonaga, Schwinger, and Feynman («Physical Review», volume 75, number 3, pp. 486-502, 1 February 1949) dimostrò che le tre versioni della QED, quella di Schwinger, quella di Feynman e quella di Tomonaga, erano equivalenti. Dyson apprezzò finalmente i diagrammi di Feynman e dimostrò anche che gli infiniti potevano essere lasciati fuori non solo al primo ordine, ma a tutti gli ordini.
Nonostante avesse tentato di portarlo a Princeton, Oppenheimer mostrava di non apprezzare Feynman. Freeman Dyson scoprì allora che Oppenheimer era andato all’8° Congresso Solvay in Europa, che si era tenuto appunto nel 1948, e quando era tornato in America, come disse Dyson, Oppenheimer «in qualche modo si era convinto, mentre era in Europa, che la fisica avesse bisogno di idee radicalmente nuove, e che l’elettrodinamica quantistica di Schwinger e Feynman fosse semplicemente un altro tentativo malaccorto per far quadrare vecchie idee con una matematica fantasiosa» [Monk, p. 807]. In Europa la “vecchia guardia”, e in particolare Paul Dirac, non era per niente convinta del lavoro di Schwinger. Forse, invece di convincere DIrac della bontà della nuova QED, che egli considerava «brutta e incompleta», era successo il contrario [Monk, p. 808]. Dopo essere tornato dall’Europa Oppenheimer se la prese con Dyson, che pure aveva voluto lui a Princeton, e fu Hans Bethe, dimostrando grande umanità, che gli disse di smetterla e che la teoria di Feynman era la migliore e andava studiata, altrimenti si parlava a vuoto. Così Dyson se ne andò dagli USA per approdare a Birmingham, dove studiò con Rudolf Peierls. Un altro episodio nel quale Oppenheimer si scagliava contro una teoria corretta. Oppenheimer sembrava sempre sul punto di passare alla storia della fisica ma rimaneva sempre per un soffio al di qua della grande scoperta teorica – a parte i due articoli di astrofisica.
La terza conferenza organizzata da Oppenheimer con la NAS fu quella di Oldstone dell’11-14 aprile 1949. La conferenza fu incentrata sull’interpretazione della QED di Richard Feynman, tanto che Abraham Pais disse che la conferenza era stata «lo show di Feynman».
Interessante e gustoso un episodio che confermava il discutibilissimo vizio di Oppenheimer di interrompere e sputtanare l’interlocutore, cosa che terrorizzava i suoi allievi e che gli rese Lewis Strauss nemico implacabile. Del pessimo «gusto che [Oppenheimer] aveva nello schiacciare pubblicamente le idee e le argomentazioni degli altri» [Monk, p. 819], anche quando aveva torto marcio, fece le spese anche Murray Slotnik durante il meeting dell’American Physical Society del gennaio 1949. Slotnik aveva fatto dei calcoli sulla teoria dei mesoni dimostrando che le interazioni “pseudoscalari” e le interazioni “pseudovettoriali” dei mesoni avevano un risultato finito nel primo caso e infinito nel secondo. Il “teorema di Case” invece diceva che le due interazioni dovevano essere le stesse.
Oppenheimer disse a Slotnik che il suo lavoro era errato, come dimostrato dal “teorema di Case”. Però Kenneth Case, che lavorava all’Institute of Advanced Study, avrebbe dovuto parlarne pubblicamente solo il giorno dopo, per cui per Slotnik era impossibile conoscerlo. Sbugiardato dal grande Oppenheimer, Slotnik vide il proprio lavoro sbrigativamente snobbato. A Feynman, spirito salace e anticonformista al quale non piacevano per niente i fanfaroni, proprio non andò giù come Slotnik fosse stato trattato, e come era stato trattato anche lui l’anno prima. Nel giro di una notte rifece i calcoli che a Slotnik erano costati sei mesi, dimostrando che erano giusti. Feynman si alzò alla presentazione di Case e disse chiaro e tondo che i calcoli di Slotnik erano corretti. Kenneth Case dovette emendare il suo teorema, alla faccia di Oppenheimer al quale il vizietto di cui abbiamo dato un ulteriore esempio sarebbe costato molto caro quattro anni dopo – con Lewis Strauss.
Le critiche alla QED non durarono ancora per molto; la comunità dei fisici si abituò abbastanza presto alla nuova teoria, e man mano che l’interesse si spostava dalla QED di Schwinger a quella di Feynman, Oppenheimer seguì questo trend. Nel 1949 Feynman pubblicò i suoi storici lavori sulla QED, e i suoi famosi diagrammi divennero universalmente noti e utilizzati dai fisici (anche se ad essere storicamente onesti dovrebbero essere chiamati diagrammi di Stueckelberg-Feynman).
Accanito fumatore, Julius Robert Oppenheimer morì di cancro alla gola il 18 febbraio 1967. Pur essendo diventato uno dei fisici più famosi del XX secolo, non passò alla storia come avrebbe voluto, con una grande scoperta da premio Nobel. Ma la colpa in fondo fu sua, o meglio del suo intraducibile carattere. Spesso leggendo le biografie si ha l’impressione che le sue geniali intuizioni andassero malamente sprecate a causa di reazioni puramente emotive, non razionali. Probabilmente se fosse vissuto più a lungo avrebbe forse ottenuto il Nobel, ma per i suoi lavori di astrofisica, da lui considerati lavoretti minori, invece che per i suoi amatissimi “mesotroni”. Il risultato fu che risaltarono soprattutto le sue doti di organizzatore, come responsabile scientifico del progetto Manhattan prima e in tono minore come direttore dell’Istituto di Princeton poi. Alla fine passò sì alla storia, e molto più dei suoi colleghi, ma come “il padre della bomba atomica”.
NOTA. L’uscita del film “Oppenheimer” di Cristopher Nolan l’anno scorso aveva portato all’uscita nelle librerie di un certo numero di biografie di “quello che ha inventato la bomba atomica”. Questo articolo è iniziato come una non troppo lunga recensione alla biografia di Ray Monk, con solo qualche accenno alla vita di Oppenheimer. Invece l’autore si è trovato davanti talmente tanti spunti interessanti, non solo e non tanto riguardo al progetto Manhattan quanto alla fisica del Novecento e ai primi dieci anni della Guerra Fredda, che ha dovuto scindere i due ambiti e dedicarsi a quello più trattabile (nel senso informatico del termine) nonostante l’argomento non fosse certo dei più facili per un profano. Parlare di Oppenheimer dal progetto Manhattan all’avvento di Kennedy avrebbe significato infatti non solo parlare di quella che gli storici americani chiamano “second red scare” e che da noi è conosciuta come “maccartismo”, ma soprattutto parlare dell’evoluzione della strategia nucleare americana da Truman a Kennedy, cioè del perché Eisenhower arrivò alla dottrina della “rappresaglia massiccia” e di come questa fu superata dalla dottrina kennediana della “risposta flessibile”. Una questione geopolitica non da poco. Ne sarebbe uscito, a farlo in modo meditato e non banale, un grosso libro, di quelli che avrebbe impegnato per non pochi anni uno studioso professionista.
SITOGRAFIA
Oltre ai libri, agli articoli e ai siti web citati nella prima puntata di questo articolo, si può anche vedere:
https://www.astrospace.it/2023/08/20/non-solo-il-padre-della-bomba-atomica-i-contributi-di-oppenheimer-allastrofisica/
http://wavefunction.fieldofscience.com/2018/05/the-birth-of-new-theory-richard-feynman.html
https://www.aif.it/fisico/biografia-subrahmanyan-chandrasekhar/
https://en.wikipedia.org/wiki/Chandrasekhar%E2%80%93Eddington_dispute
https://it.wikipedia.org/wiki/Centro_spaziale_Luigi_Broglio
https://www.aif.it/fisico/lesperimento-conversi-pancini-piccioni/
https://www.lindahall.org/about/news/scientist-of-the-day/robert-serber/